Il caso Gambia vs. Myanmar sulla responsabilità del Myanmar sul genocidio dei Rohingya, ha ripreso oggi all’Aia.
L’ICJ ha consentito alla rappresentanza militare di difendere il Myanmar. Ko Ko Hlaing, ministro militare per la cooperazione internazionale, sostituisce Daw Aung San Suu Kyi in una delegazione che comprende Thida Oo, l’avvocato britannico Christopher Staker e l’avvocato Stefan Talmon.
Ko Ko Hlaing ha aperto affermando che il Myanmar è “impegnato a risolvere i problemi nello stato del Rakhine settentrionale” e “impegnato per una risoluzione pacifica”. Nessuna parola sull’attuale crisi politica e sul colpo di stato militare.
La squadra difensiva ha quindi presentato le stesse 4 obiezioni preliminari presentate all’udienza provvisoria (tutte respinte dal giudice):
1) Il caso non è stato promosso dal Gambia, ma dall’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC). Questo punto è stato già respinto dalla corte in precedenza.
2) Talmon sostiene che il Gambia non ha interessi diretti in Myanmar o nel caso Rohingya
3) L’esercito sostiene poi che la Convenzione sul genocidio non si applica al Myanmar (poiché il Paese ha posto una riserva agli articoli VI e VIII della Convenzione al momento della ratifica)
4) Staker sostiene che non c’è controversia tra Gambia e Myanmar, quindi il Gambia non può portare il caso di fronte all’ICJ.
La linea di difesa del regime militare sembra piuttosto debole. Non affronta mai i crimini contestati e si concentra principalmente su cavilli discutibili.
Durante l’intera udienza, il team della difesa del governo militare non ha mai usato il termine “Rohingya”. Gli ultranazionalisti birmani affermano che “Rohingya” non è un’etnia birmana e che i musulmani dell’Arakan (Rakhine) sono immigrati bengalesi illegali, mentre i Rohingya si considerano indigeni dello Stato di Arakan, un’affermazione supportata da molti storici.
È importante ricordare che questo caso riguarda la responsabilità del Myanmar come Stato, e non la responsabilità individuale (cioè Min Aung Hlaing e i suoi soldati). La Corte Criminale Internazionale (ICC) e la Corte argentina (che ha applicato il principio della giurisdizione universale), sono i luoghi in cui si spera che vengano perseguitati gli individui.
Si è discusso molto sull’accettazione da parte dell’ICJ della delegazione militare e se essa costituisca un atto di riconoscimento del regime di Min Aung Hlaing. L’ICJ tratta con gli Stati, non con i governi, quindi la presenza del regime militare in tribunale non deve essere vista come un riconoscimento formale. Tuttavia il rischio di un riconoscimento indiretto è evidente e poteva probabilmente essere evitato. Il fatto che individui sottoposti a sanzioni a livello internazionale per il loro coinvolgimento in violazioni dei diritti umani siano stati autorizzati a presentarsi davanti alla corte di giustizia per rappresentare un Paese, è semplicemente inaccettabile.
La giunta militare sta chiaramente usando la corte come palcoscenico per presentarsi come governo legittimo. Ancora una volta, dopo l’apparizione di Daw Aung San Suu Kyi all’Aia, l’ICJ diventa un luogo di campagna politica.
Non dimentichiamo che questo caso riguarda il rendere giustizia a centinaia di migliaia di Rohingya che hanno subito la brutalità militare birmana e una vile campagna anti-musulmana per decenni. Centinaia di migliaia di Rohingya hanno perso tutto, compresi i loro cari, e vivono lontano da casa già da 5 anni.
Il futuro del Myanmar, passa anche attraverso loro.
Non ci sarà mai giustizia in Myanmar, senza giustizia per i Rohingya
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