LA NASCITA
48 ore. Dopo lo shock iniziale, ci sono voluti nemmeno due giorni per vedere nascere il movimento di protesta contro il colpo di stato militare.
Il 2 febbraio tramite i social venne lanciata la prima campagna di disobbedienza civile contro il golpe. Con il tempo questa campagna prese il nome di Civil Disobedience Movement (CDM), la cui pagina facebook https://www.facebook.com/civildisobediencemovement2021 conta oltre 340.000 followers.
I primi scioperi iniziarono il 3 febbraio, quando medici ed infermieri decisero di iniziare a scioperare.
Non c’erano manifesti, nessun saluto delle tre dita, ma solo un nastro nero, lo stesso che era stato adottato come simbolo di protesta nel 2015. Allora il governo birmano insediò diversi ufficiali militari all’interno del ministero della salute, scatenando le proteste. Lo slogan era “Say No to the Militarization of Myanmar’s Ministry of Health.” (“Di’ no alla militarizzazione del ministero della salute del Myanmar”). Un preludio a quello che sarebbe successo 6 anni più tardi.
Nessun medico nel 2021 voleva tornare sotto il governo militare. Ai tempi della junta i medicinali scarseggiavano, i budget erano ridotti, la burocrazia infinita, i turni erano lunghissimi e i salari bassi (200-250 dollari al mese per un dottore). Inoltre i medici dell’esercito godevano di privilegi rispetto a quelli civili, tra cui quello di essere pagati anche durante gli anni di studio.
Nel pieno della pandemia Covid, lo sciopero del personale ospedaliero poteva sembrare inopportuno. I medici erano consapevoli che il loro sciopero sarebbe significato sacrifici immediati in termine di salute dei pazienti. Ma sapevano anche che il colpo di Stato avrebbe influenzato la sanità birmana per anni, con effetti ben peggiori.
Come nel 2015, anche nel 2021 questa campagna divenne virale. Una vera e propria valanga. Giorno dopo giorno, nonostante le intimidazioni dei superiori, migliaia di lavoratori di diversi settori si unirono alle proteste. Ai medici seguirono migliaia di insegnanti di ogni grado, dipendenti dei ministeri a partire dal MOFA (ministero degli affari esteri che faceva capo a Daw Aung San Suu Kyi), e dal ministero dell’agricoltura. Si unirono anche le associazioni sindacali del settore minerario e tessile, dei trasporti, e soprattutto delle banche.
La campagna vaccinazioni Covid si interruppe, gli ospedali chiusero, la chiusura delle banche creò il panico. Il ministero della salute e successivamente lo stesso generale Min Aung Hlaing dovettero chiedere pubblicamente il ritorno dei dipendenti al lavoro, ma nonostante le richieste, la valanga si era ormai distaccata.
Negli stessi giorni iniziarono anche le prime timide manifestazioni per strada. Le associazioni studentesche in Myanmar hanno sempre avuto un ruolo storico nel guidare le proteste.
Il 4 febbraio, quando cominciarono a circolare le immagini della prima protesta studentesca a Mandalay, c’era una sensazione di nervosismo. Come avrebbe reagito il regime? D’altronde il Tatmadaw ha un passato di repressione violenta di ogni manifestazione pubblica. Come avrebbe reagito il popolo?
La prima mossa del regime fu il blocco di internet del 5 febbraio, nel tentativo di calmare la situazione e non permettere ai manifestanti di organizzarsi.
Il 6 febbraio in diretta Facebook (utilizzando schede sim in roaming per aggirare il blocco di internet), Ei Thinzar Maung e Esther Ze, due attiviste birmane, iniziarono a protestare per le strade di Hledan, quartiere studentesco di Yangon.
Alla marcia si unì un corteo di migliaia di donne lavoratrici provenienti delle industrie del distretto Hlaing Tharyar. Si ritrovarono tutti all’incrocio di Junction Square, punto di riferimento per molti giovani di Yangon e luogo dove sarebbero iniziate le proteste di Hledan dei giorni seguenti.
L’incontro di queste forze diverse, rappresenta bene la spontaneità con cui è nato questo movimento. Studenti, lavoratori, simpatizzanti NLD, attivisti per i diritti delle minoranze etniche…si ritrovarono tutti a protestare contro il regime militare. Senza alcun leader preciso, senza un programma iniziale, uniti solo dall’urgenza di opporsi ad un nemico comune.
Seguirono giorni di protesta vivace, con atmosfera quasi carnevalesca, in cui la diversità del popolo birmano e il suo umorismo vennero mostrati al mondo.
karen state hsipaw, shan state kachin state (AP Photo)
IL GOLPE CHE UNISCE
Il Myanmar è un Paese ricco di diversità ma anche di divisioni, figlie del colonialismo britannico prima, e del regime militare poi. Dopo l’indipendenza del 1948 e il problematico governo di U Nu, nel 1958 avvenne il primo colpo di Stato (molti storici datano il primo golpe nel 1962, ma fu nel ’58 che U Nu fu forzato a lasciare il potere al generale Ne WIn). Da allora il Tatmadaw, l’esercito birmano che liberò il Paese dalla Gran Bretagna, prese di fatto il posto dell’invasore come colonizzatore del Myanmar. Mantenne di fatto diversi tratti del colonialismo inglese, comprese molte leggi antidemocratiche in uso ancora oggi (ad esempio la famigerata 505b che viene utilizzata per perseguire gli attivisti politici). Mantenne anche la politica di divide et impera, dove le diverse minoranze etniche erano la base della piramide, la maggioranza di etnia Bamar nel mezzo, il Tatmadaw al vertice.
Il colpo di Stato del 1 febbraio fu come come una livella. Tutte le diversità e le distanze tra etnie, generi, religioni si annullarono in una notte. La maggioranza Bamar si ritrovò allo stesso livello delle minoranze etniche. Nella tragedia di un colpo di Stato, si formò un’occasione di unione.
Molti cominciarono a prendere coscienza della situazione in cui le minoranze hanno vissuto per decenni, compresi i Rohingya.
Certo, la strada per una vera società multietnica ed equa è lunga e tortuosa, ma scene come queste, 3 anni fa erano inimmaginabili:
SUPERARE LE PRIME DIVISIONI
Nelle prime settimane all’interno del movimento, si notavano alcune tensioni. Certamente, come abbiamo visto, c’era unità nel desiderio di far cadere il golpe. Ma non c’era consenso su quali obiettivi si volevano raggiungere.
Da un lato c’è la maggioranza Bamar, principalmente sostenitrice di NLD (national league for democracy) di Daw Aung San Suu Kyi (DASSK). Questa maggioranza è quella che protesta con le bandiere rosse del partito, chiedendo la liberazione del proprio leader, figura quasi religiosa per molti, e il ritorno allo status quo pre-golpe.
Ci sono i sindacati dei lavoratori. Associazioni non politiche, ma che hanno una grossa coesione, tanto che le principali organizzazioni sono state rese illegali dal regime.
Molti attivisti politici e gruppi etnici armate (EAO) infine, chiedono l’abolizione della costituzione del 2008 (ingegnata dal Tatmadaw stesso) e il federalismo, per garantire alle minoranze etniche maggiore autonomia. Vogliono in sostanza il superamento non solo del regime, ma anche dello status quo in cui NLD veniva visto come forza opprimente.
Queste tensioni tra chi vuole tornare al 2020, e chi desidera un nuovo sistema, vennero risolte il 5 marzo. In quel giorno il Committee Representing Pyidaungsu Hluttaw (CRPH), ovvero il governo ombra a maggioranza NLD che rappresenta il governo eletto nel 2020 in opposizione al golpe, rilasciò un comunicato in cui dichiarava i propri obiettivi politici. Tra questi, i più importanti sono il ritorno alla democrazia e fine del processo di birmanizzazione (egemonia dei Bamar), l’abolizione della costituzione del 2008 e l’istituzione di un governo federalista.
Grazie a questo passo molte minoranze etniche aprirono la porta ad un’alleanza.
SCONFIGGERE UN CARRO ARMATO CON I FIORI
In questo scontro tra il regime militare e il popolo birmano è evidente la disparità di mezzi. Da un lato un esercito di quasi 500.000 unità, dall’altro una popolazione di 50.000.000 di abitanti povero, disarmato e senza organizzazione.
Una lotta tra Davide e Golia. Come vincere?
Sulla strada
Fin dall’inizio il Tatmadaw cercò di giustificare il colpo di Stato come un atto legittimo previsto dalla costituzione, per proteggere la sicurezza del Paese. L’obiettivo del CDM, fu quello di delegittimare la presa di potere dell’esercito con delle manifestazioni di protesta pacifiche. Queste manifestazioni si ispirano al pacifismo di Gandhi, alla protesta birmana del 1988 (tanto da adottarne i canti rivoluzionari), dalla cultura popolare (i meme, il saluto delle tre dita preso dal film Hunger games) e dai movimenti di protesta di Hong Kong e Bangkok. Come questi ultimi, il CDM non ha un unico leader. Si definisce “leaderless”, caratteristica che sta mettendo un po’ in crisi l’esercito, che non ha un’unica testa da “tagliare”. Si tratta di un movimento molto spontaneo e creativo. Non ci sono particolari regole e tutto sembra nascere e crescere in modo organico. I ruoli si assegnano spontaneamente. C’è chi si offre per combattere in prima linea, con gli scudi. Chi decide di concentrarsi sulla creazione di volantini e pamphlet. Addirittura ci sono squadre dedicate alla pulizia delle strade a fine manifestazione. E’ incredibile come i birmani, che solitamente non sono particolarmente organizzati, in un momento di emergenza come questo, siano riusciti a mantenere ordine e disciplina. All’inizio le manifestazioni puntavano sul conquistare i favori della polizia. I manifestanti sapevano bene del rischio dell’arrivo dell’esercito, e la polizia, pur facendo capo al Tatmadaw, veniva vista come un ente più “amichevole” rispetto ai soldati. Con il tempo il movimento si è raffinato, soprattutto nelle grandi città, adottando mezzi e strategie più complesse, nonostante i pochi mezzi. Caschi, occhiali e maschere per i lacrimogeni, scudi per proteggere le prime linee dai proiettili di gomma.
I social media hanno sicuramente aiutato, diversi aiuti e consigli sono arrivati da attivisti di Hong Kong e Thailandesi
Subito il movimento birmano si è inserito nella Milktea Alliance, alleanza nata sui social composta dai gruppi di protesta di Hong Kong, Bangkok e Taiwan.
Il legame è talmente forte che il 28 febbraio venne organizzato un giorno di protesta nei paesi internazionale per esprimere solidarietà con la causa birmana.
L’atmosfera gioiosa venne interrotta il 9 febbraio quando venne uccisa a Naypyidaw Myat Thet Thet Khaing, ragazza di 19 anni, colpita alla testa da un proiettile vero.
Tutte le tecniche assimilate nei primi giorni, non possono nulla contro i proiettili veri.
Nei giorni successivi la presenza militare nelle città cominciò ad aumentare. A metà mese venivano avvistati a Yangon e Mandalay soldati dei battaglioni di fanteria 77 e 99, tra i più violenti del Tatmadaw. Sono i battaglioni dispiegati nel Rakhine durante il genocidio dei Rohingya, e in altri conflitti contro le minoranze etniche. Di sicuro non sono forze dell’ordine addestrate a contenere manifestazioni pacifiche.
Le manifestazioni continuarono con coraggio.
Il 22 febbraio, giorno dei cinque “2” (22/02/2021), venne istituito uno sciopero generale nazionale. Nonostante le violenze dei giorni precedenti che causarono due morti a Mandalay, e le minacce dell’esercito tramite il canale televisivo nazionale, arrivò forse l’apice in termini di partecipazione:
Seguono giorni di terrore. Agli arresti indiscriminati e alle violenze, si aggiunsero omicidi raccapriccianti, con molti ragazzi giovani uccisi da colpi di fucile in testa. Ma non c’è paura.
Il ruolo dei media in questa battaglia è fondamentale. Diversi reporter sul campo cercano di documentare le violenze dell’esercito. I reporter, sono ora visti come veri e propri eroi. Il giornalista/attivista Mratt Kyaw Thu conta 675.000 followers su Facebook e 221.000 su Twitter. Numeri impensabili in un Paese in cui i giornalisti erano spesso visti come spie (anche a causa della propaganda militare).
La verità è che oggi in Myanmar ci sono milioni di reporter pronti a filmare il golpe con il proprio telefonino.
Ad oggi, diversi reporter e manifestanti sono stati arrestati per aver documentato gli eventi.
MORIRE DA GIOVANI
Figlio: pulisci bene il mio zaino madre
Madre: certo figlio mio
Figlio: domani pregherò prima di andare a protestare. Se morirò, non piangere
Madre: figlio mio, fa’ il tuo dovere. Sono fiera di te. Non piangerò. Preparerò molti fiori. Non piangerò figlio mio.
E’ difficile per chi vive una vita privilegiata come la nostra capire cosa spinge un ragazzo di 15-25 anni a protestare in Myanmar. Ogni giorno potrebbe essere l’ultimo. Per decine di loro, è stato l’ultimo.
Con l’aumentare degli episodi di repressione violenta, le manifestazioni sono diventate meno numerose. Sono soprattutto i ragazzi della cosiddetta generazione Z a rimanere sulle strade. A differenza delle generazioni precedenti, i ragazzi della GZ sono cresciuti con una libertà senza precedenti in Myanmar. Con un minimo di democrazia, con libertà di parola, con la possibilità di studiare ed andare all’università e a volte anche di viaggiare, sempre connessi con il mondo tramite internet 24 ore su 24, questi ragazzi finora non avevano conosciuto la dittatura. Molti di loro nel 2020 hanno votato per la prima volta. Tutti loro, o quasi, hanno votato NLD.
Il colpo di Stato ha cancellato il loro futuro. Una vita sotto il regime militare per questi ragazzi non è vita, non è libertà. In un certo senso sanno che se il Tatmadaw dovesse vincere, il loro sarebbe semplicemente un triste sopravvivere in uno stato senza leggi, senza protezione, senza giustizia.
Molti di loro dicono: “non abbiamo più nulla da perdere. Non abbiamo altra scelta“
Tre intere generazioni hanno vissuto sotto il regime militare. La speranza è che questa sia l’ultima.
AFFOGARE IL NEMICO
Il secondo fronte su cui lotta il CDM, forse quello che finora ha avuto più successo, è il boicottaggio. Si tratta di un boicottaggio su più livelli.
Il primo è quello dello sciopero. Migliaia di lavoratori dei settori chiave hanno smesso di lavorare. Dipendenti dei ministeri, della logistica e dei trasporti, medici ed infermieri, dipendenti del settore bancario…Un mese dopo il Paese è già in ginocchio. Le banche sono chiuse e c’è una grossa crisi di liquidità, tanto che il Tatmadaw sta cercando di ottenere denaro derubando templi ed associazioni benefiche. Il settore trasporti lavora al 10% delle proprie capacità. I trasportatori hanno assicurato solamente le consegne di medicine e poco altro. I porti sono fermi, le merci non viaggiano più, sono ferme nei depositi e le dogane sono bloccate. L’importazione ed esportazione di beni si sono azzarati. Sugli scaffali dei supermercati cominciano a scarseggiare diversi prodotti, soprattutto esteri. MAERSK, leader mondiale della logistica, ha interrotto il suo servizio in Myanmar. Le materie prime cominciano a scarseggiare, quindi anche il manifatturiero sta andando in crisi. Uno scenario da incubo per qualsiasi governo, soprattutto uno che cerca legittimità.
Il Tatmadaw sta provando di fare di tutto per riportare la gente a lavorare. Arresta gli aderenti al CDM, sfratta le loro famiglie, ma non può nulla contro la fermezza di un popolo disposto a morire di fame pur di far cadere il regime.
Tutto questo ha un costo anche per il CDM. In un Paese povero, in cui il reddito giornaliero per molti va dai 3 ai 5 dollari al giorno, le famiglie spesso non hanno risparmi. Rinunciare all’alloggio e potenzialmente più stipendi diversi di fila è un salto nel buio notevole. Ma la generosità birmana non tradisce mai. Collette, donazioni e contributi anche dall’estero, hanno permesso di sostenere migliaia di persone. Tutto pur di farle rimanere a casa.
Il secondo fronte di boicottaggio è quello dei consumi. Il Tatmadaw infatti, tramite i conglomerati MEHL e MEC controlla diverse attività economiche dal Paese. Banche, trasporti, costruzioni, alberghiero, bevande alcoliche, alimentari, sigarette: l’esercito opera in tutti i settori immaginabili. Lo slogan è “boicotta i prodotti militari”. Sono persino nate diverse app per tenere aggiornati i cittadini sui prodotti e servizi da evitare.
Si tratta di una vera guerra di resistenza. Da un lato i generali che stanno cercando di curare i propri interessi economici e quelli dei loro alleati, tra cui molte aziende straniere soprattutto cinesi. Dall’altro un popolo pronto ad affondare, se questo significa portare il regime a fondo con sé.
Altro fronte è quello delle tecnologie. Il CDM è composto anche da “guerrieri da tastiera”, il cui compito è quello di divulgare il più possibile le informazioni riguardanti quanto succede nel Paese, soprattutto all’estero. Grazie all’utilizzo di VPN, questo esercito della rete riesce ad aggirare i blocchi del regime di social come Facebook, Instagram e Twitter. #whatshappeninginmyanmar #savemyanmar sono tra i tag più popolari nei social. Migliaia di video e foto circolano ogni giorno, documentando le violenze dei militari in tempo quasi reale. La speranza è quella di sensibilizzare l’opinione pubblica e spingere i governi stranieri e le Nazioni Unite ad agire in difesa della democrazia. E’ loro compito anche individuare siti e pagine di disinformazione e propaganda militare per richiederne la rimozione. In questo fronte giocano un ruolo importante anche gli hacker. Grazie a loro sono stati bloccati diversi siti governativi.
PROSPETTIVE
L’obiettivo del CDM è quello di riuscire a giocare su due fronti, mantenendo il proprio vantaggio sul fronte boicottaggio e limitando le perdite sulle strade pur continuando ad esprimere dissenso. L’assenza di un leader unico, non sembra essere un problema. Non ci sono spazi per negoziare, né c’é la volontà di farlo. Non si pone quindi il problema di chi si siederà al tavolo dei negoziati. Nell’eventualità ci sarebbe comunque il CRPH e il Dott. Sasa che sembra essere diventato una figura unificante.
In prospettiva futura si dovrà evitare di alienare il resto della popolazione civile. Il Tatmadaw sta adottando una strategia di terrore. Uccide i manifestanti di giorno, la notte attacca ed arresta i membri della resistenza, ma estende la violenza anche contro il resto della popolazione civile, soprattutto contro chi aiuta il CDM. Non è detto che questo sostegno al CDM da parte di famiglie ed anziani possa durare all’infinito sotto questa pressione.
Una situazione prolungata di instabilità sarebbe un duro colpo per il regime. Non riuscire a governare il Paese causerebbe danni enormi. Potrebbe guastare i rapporti con i maggiori imprenditori birmani, i cronies, storicamente vicini ai generali. Potrebbe scontentare la Cina, che non solo ha un rapporto di amore/odio con il Tatmadaw, ma ha anche enormi investimenti in Myanmar e una situazione di crisi li danneggerebbe.
Il popolo ne è consapevole ed è pronto a pagare le conseguenze di un fallimento statale. Resta da vedere se anche l’esercito sarà disposto a pagarle. L’impressione è che il generale Min Aung Hlaing abbia in qualche modo costretto l’esercito in un angolo. Può sempre contare sulla forza bruta per uscirne, ma più la usa, più è probabile che la sua situazione diventi indifendibile anche per Cina e Russia.
La speranza è che la comunità internazionale riesca ad essere più reattiva. Raramente in ambito internazionale capitano crisi così chiare e definite, dove il non c’è dubbio su chi sia il “cattivo” e chi sia la vittima è dove è chiaro che non c’è possibilità di negoziazione. Non riuscire ad intervenire in un caso così netto, darebbe spazio in futuro ad altri regimi in altri Paesi di nascere impuniti. In fondo non è solo un affare birmano, ma un interesse internazionale. L’ R2P potrebbe essere la chiave di volta.
RESISTERE, RESISTERE, RESISTERE
Il popolo birmano punta sulla propria resilienza. L’esercito sulla forza. Il CDM deve puntare sul lungo periodo dove creatività e resistenza giocano un ruolo importante. Certamente soffre grandi perdite, soprattutto sulle strade, ma ha già vinto diverse battaglie. Dal successo delle campagne di boicottaggio, al superamento delle divisioni interne, ci sono motivi per essere cautamente ottimisti.
Ciò che è sicuro è che questo regime teme una nuova generazione determinata a non abbassare la testa.
D’altronde, non c’è scelta.
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Questo pezzo è dedicato a tutti gli eroi caduti in questi giorni. Ragazzi giovani e non, morti per un’idea, la democrazia, che molti di noi prendono per scontata.
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