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Mentre il mondo celebra il Primo maggio, in Myanmar questa giornata assume un significato particolare.

In questo momento il Myanmar è già da considerarsi un “failed state”, uno Stato fallito: è un Paese che sta vivendo una grossa crisi sociale, economica e politica. Prima di puntare il dito contro i movimenti di protesta e disobbedienza civile, bisogna ricordare che il Myanmar del 31 gennaio 2021 era un Myanmar destinato ad una ripresa economica, e una buona parte della popolazione guardava al futuro con ottimismo. Era ancora lontano da una vera democrazia, e non mancavano problemi di enorme ineguaglianza e guerre civili. Ma il colpo di Stato di Min Aung Hlaing sta facendo fare un salto indietro di decenni. La responsabilità di tutto ciò che sta accadendo in Myanmar è dei generali.

Il motivo delle proteste di questi tre mesi, nonostante gli oltre 700 morti e 3000 arresti, non è il mancato rispetto del risultato elettorale di Novembre. Ciò che preoccupa la popolazione è il futuro sotto il regime militare.

Il Myanmar ha vissuto 70 anni sotto il Tatmadaw e ne conosce bene non solo la ferocia, che oggi tutto il mondo ha imparato a conoscere grazie ad internet, ma anche l’inettitudine politica. Sotto il regime militare il Myanmar, Paese giovane e pieno di potenzialità, non ha speranza di crescita e miglioramento.

I giovani non hanno speranza di avere una buona educazione, ma solo un’educazione propagandistica che insegna la necessità di avere un esercito che tenga unito il Paese, basata sul memorizzare e ripetere nozioni piuttosto che sviluppare logica e pensiero critico.

I lavoratori delle fabbriche non vedrebbero i loro diritti rispettati, già oggi molte associazioni sindacali sono state rese illegali. Le battaglie e le piccole vittorie degli ultimi anni verrebbero vanificate, e lascerebbero spazio a condizioni di lavoro sempre peggiori in un contesto già molto difficile.

Gli agricoltori vivrebbero grosse difficoltà. L’espropriazione di terre è un problema molto diffuso in Myanmar, soprattutto nelle aree etniche. Il cambiamento climatico è un altra minaccia di cui i generali non si occuperebbero, anzi. Inoltre le varie sanzioni potrebbero danneggiare le esportazioni.

La sanità collasserebbe completamente. Abbiamo visto come dottori ed infermieri siano stati tra i primi a seguire la filosofia del CDM. In passato il Tatmadaw ha dimostrato di non avere nessun interesse nella sanità. Basti pensare al ciclone Nargis. Oltre 130,000 persone sono morte, molte a causa della cattiva (e criminale) gestione dell’emergenza da parte del regime di allora. E questi tre mesi hanno dimostrato come i generali non abbiano alcun rispetto per la vita delle persone.

L’ambiente verrebbe danneggiato da politiche di sfruttamento indiscriminato. Il Myanmar è ricchissimo di risorse naturali, pietre preziose, legname, gas e petrolio. Il Tatmadaw ha sempre funzionato come forza coloniale, sfruttando e schiavizzando le risorse del suo stesso Paese.

Il turismo subirebbe un duro colpo. L’apertura del Paese dopo il 2010 ha portato ad un boom del turismo in Myanmar, e questo ha permesso a molti di trovare un’occupazione e di uscire dalla povertà. Hotel, ristoranti, agenzie turistiche, taxi, negozi di souvenir e guide turistiche: centinaia di migliaia di persone sono impiegate in questo settore. La dittatura militare porterebbe molti turisti a scartare il Myanmar come meta dei propri viaggi. Non solo. Porterebbe ad una cattiva gestione del patrimonio artistico. Bagan è diventata patrimonio dell’UNESCO solamente di recente, anche a causa della cattiva gestione e delle pessime opere di ristrutturazione portate avanti dal regime militare.

I media non sarebbero più liberi. Il Myanmar è passato da essere uno dei Paesi più isolati al mondo, ad essere un Paese connesso come il resto del Sudest asiatico. Internet e smartphone sono ormai ovunque, i quotidiani indipendenti avevano visto una rinascita, la censura non era più una preoccupazione come prima. Le informazioni viaggiano virtualmente libere, o quasi (ricordiamo il caso dei due giornalisti Reuters arrestati a seguito del loro reportage sui massacri dei Rohingya). Le restrizioni di internet di questi mesi e quelli in Rakhine e Mon State dell’anno precedente sono la prova di come questa libertà di informazione non ci sarebbe più.

A livello di politica estera il Myanmar diventerebbe una barzelletta, un “Pariah State” come vengono definiti gli Stati non riconosciuti a livello internazionale. Il Paese sarebbe costretto a “svendersi” a potenze disposte a mantenere un rapporto con un regime criminale come Cina e Russia.

A tutto questo si aggiungono le guerre civili e la discriminazione razziale che sicuramente non scomparirebbero sotto il regime.

Non c’è nulla che il regime militare possa migliorare in Myanmar. Il punto chiave è questo: si tratta di un ristretto gruppo di criminali feroci, avidi di potere e denaro che oltretutto è ignorante ed è incapace di governare un Paese.

Davanti a questa prospettiva, i birmani non possono non protestare. Il loro futuro è in gioco in una maniera che noi non possiamo nemmeno immaginare.

La scommessa dei movimenti di protesta è quella di far cadere il regime rendendo il Paese ingovernabile. L’astuzia e la determinazione dei birmani è davvero incredibile. Fin da febbraio avevano chiara in mente la via per ottenere il loro obiettivo. E mentre la comunità internazionale, le Nazioni Unite, ASEAN, l’EU ancora non sa come reagire, il popolo del Myanmar sta già mettendo in ginocchio i generali.

Certo il prezzo pagato è enorme. Centinaia di persone, in gran parte giovani, non avranno modo di vedere il nuovo Myanmar. E il trauma di questi mesi probabilmente rimarrà a lungo. Ma il Myanmar che ora i giovani riescono ad immaginare, e che forse non è così lontano, è molto più libero di quanto non sia mai stato.


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