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Mentre il Generale Min Aung Hlaing è in volo verso il summit ASEAN di Jakarta, a Yangon le proteste in strada sembrano riprendere forza.

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È difficile in questo momento capire quali risultati questo meeting possa portare. Il viaggio del generale del Tatmadaw ha il chiaro obiettivo di ottenere quello che fatica ad avere all’interno dei confini nazionali: legittimità. Senza alcun controllo su un Paese ormai sull’orlo del fallimento, Min Aung Hlaing è disposto a subire critiche da parte di Paesi considerati alleati pur di mantenere vive le speranze del suo governo.

Gli obiettivi di ASEAN sono invece meno chiari. Appoggiare il regime militare sarebbe un duro colpo alla reputazione dell’intero gruppo, per cui possiamo aspettarci che in qualche modo i vari Stati manterranno le distanze dal Tatmadaw (Prayut, Duterte e Phankham Viphavanh non saranno presenti), senza però attaccarlo duramente. I precedenti meeting virtuali hanno evidenziato come l’associazione del sud est asiatico non sia in grado di affrontare una crisi di questo tipo. Sono troppe le componenti in gioco, e la presenza di altri Stati “non democratici” buoni alleati del Myanmar, complica la situazione. Anche negli anni di governo NLD, gran parte dell’economia birmana è rimasta in mano all’esercito. Paesi come Singapore, VIetnam e Thailandia hanno investimenti importanti in Myanmar. Questo da un lato aumenta la loro influenza e il loro interesse nello stabilizzare la situazione, ma dall’altro rende per loro necessario mantenere un rapporto amichevole con il Tatmadaw.

È probabile che ASEAN chieda a Min Aung Hlaing di fermare le violenze contro i cittadini, e se si riuscisse ad arrivare a questo sarebbe già un primo passo. Dopo oltre 700 morti accertati (numero probabilmente sottostimato) e oltre 3000 arresti, proteggere la popolazione è l’obiettivo principale. Il mancato invito del NUG (governo eletto birmano), era probabilmente uno dei requisiti per poter avere Min Aung Hlaing a Jakarta. L’ASEAN sicuramente invocherà la necessità di stabilire un “dialogo” tra le parti birmane coinvolte senza ingerenze esterne, linea condivisa dalla Cina e di fatto anche dall’ONU. Se sia possibile un “dialogo”, e soprattutto un compromesso con il Tatmadaw è ancora tutto da vedere. Non dipenderà solo dall’esercito. In caso di una negoziazione, anche l’unità del NUG verrebbe messa alla prova. Le minoranze etniche e le EAO ancora non hanno piena fiducia nella maggioranza Bamar e nell’NLD. Il regime militare ha sempre adottato una politica di divide et impera per mantenere il potere. Per una soluzione diplomatica sarebbe importante arrivare al tavolo delle negoziazioni con un fronte realmente unito e soprattutto in una posizione di relativa forza, cosa che al momento ancora manca.

Ma soprattutto ciò che davvero importerà, negoziazioni o meno, è la volontà de popolo birmano. Questi tre mesi hanno dimostrato cosa la gente sia disposta a fare pur di ottenere la democrazia. Hanno evidenziato quanto potere può avere un movimento di protesta unito e determinato. Pagando un prezzo altissimo, è riuscito a bloccare l’economia, a fermare tutti gli apparati statali e a negare qualsiasi controllo ad un esercito armato che conta più di 300.000 unità.

Non importa quanti aerei possa prendere, e a quanti meeting possa andare. Min Aung Hlaing, alla fine, non potrà evitare il giudizio del popolo birmano.


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