Fin dall’inizio del colpo di Stato, i manifestanti hanno cercato sostegno da parte della comunità internazionale. Moltissime manifestazioni si sono tenute di fronte alle ambasciate straniere, e sui social media sono migliaia le richieste d’aiuto agli stati stranieri. Non essendoci forze interne al Paese in grado di contrastare il potere dell’esercito, è comprensibile che si guardi all’estero come speranza . Purtroppo la risposta sia dell’ONU che dei singoli stati, non riesce ad andare oltre le ripetute dichiarazioni di “profonda preoccupazione” e “forte condanna”. Le continue minacce verbali non fanno altro che illudere la popolazione birmana che invoca sempre più fortemente la Responsibility to protect (R2P).

Spesso in Myanmar i manifestanti si chiedono perché l’ONU sia così lento nell’intraprendere azioni contro un esercito terroristico

L’R2P è un principio che permette all’ONU di intervenire in difesa dei diritti umani per evitare che qualsiasi gruppo/nazione commetta gravi crimini contro l’umanità. Questo principio si basa su 2 articoli così riassumibili:

Art. 138 Ogni stato è responsabile della protezione della propria popolazione contro crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità

Art. 139 La comunità internazionale delle Nazioni Unite ha il dovere di far rispettare l’art. 138 ad altri Paesi membri attraverso l’utilizzo tempestivo di mezzi diplomatici e pacifici (ad esempio sanzioni economiche) ed infine, come ultima risorsa, con l’intervento militare.

Ne consegue che se uno Stato membro non rispetta l’articolo 138, gli altri Stati dell’unione possono in teoria appellarsi all’articolo 139 ed intervenire senza il consenso dello Stato in violazione.

Manifestanti protestano e invocano l’R2P

L’intervento deve essere proporzionale alla gravità del “crimine” e predilige misure diplomatiche lasciando l’intervento armato come ultima risorsa.

Gli strumenti che la comunità internazionale ha in questo momento quindi sono:

a) dialogo diplomatico. Dopo i ripetuti attacchi terroristici è difficile immaginare su quali basi intavolare una negoziazione diplomatica

b) sanzioni economiche ed embargo armi. Strumento utilizzato spesso in passato. In Myanmar si è dimostrato poco efficace e potrebbe danneggiare nuovamente le fasce di popolazione più deboli piuttosto che le elites. Potrebbe inoltre spingere il Myanmar nelle braccia di Cina, Russia ed India, come già successo in passato. I sostenitori delle sanzioni invece pensano che se mirate nei confronti dei generali e del conglomerato MEHL da loro controllato, possano avere un impatto reale. Questa tesi sarebbe rinforzata dai progressi ottenuti durante il governo Thein Sein in Myanmar (2010-2015), che alcuni attribuiscono appunto alle sanzioni. La realtà è che probabilmente queste misure hanno inciso poco sulle scelte dei militari, e che la loro apertura alla transizione democrazia fosse più dovuta al desiderio di acquisire legittimità e di non dipendere totalmente dalla Cina.

D’altronde, nell’organizzare il colpo di Stato, il Tatmadaw ha sicuramente messo in preventivo le sanzioni economiche.

A mio parere l’occidente continua a sopravvalutare la propria influenza sul resto del mondo, e soprattutto continua a ragionare con mentalità occidentale. Per questo molti osservatori stranieri erano scettici riguardo alla probabilità di un golpe nel 2021, in quanto il Tatmadaw sembrava essere in una posizione invidiabile, con grande influenza politica, e libertà di curare i propri interessi economici. I generali con questo golpe hanno dimostrato di seguire logiche tutte loro, e sono disposti a sostenere forti perdite economiche pur di raggiungere i propri obiettivi. Di sicuro c’è scarsa conoscenza della situazione birmana e degli attori coinvolti, e le decisioni prese in passato dai paesi occidentali ne sono la prova.

c) intervento militare. Difficile da immaginare il dispiego dei caschi blu in questo momento. Si deve anche considerare che la posizione della Cina sulla questione birmana è ambigua e le tensioni tra Cina e Stati Uniti sicuramente non giocano a favore di questa soluzione. Molti in Myanmar ci sperano, ed è comprensibile viste le violenze che stanno subendo in queste settimane. Inoltre un intervento armato potrebbe essere devastante proprio sulla popolazione civile.

Su questo punto c’è da dire però che se fino a due settimane fa l’intervento militare era considerato da pazzi, oggi, alla luce di quanto successo recentemente, la possibilità di una semplice negoziazione diplomatica appare altrettanto improbabile.

Tutte queste risoluzioni dovrebbero comunque passare attraverso il voto, con potenziale astensione/veto da parte di Cina e/o Russia. Entrambe spesso adottano una politica di non ingerenza. In realtà è facile capire come non abbia senso per Paesi come Cina, Russia, Thailandia, Cambogia e Vietnam denunciare gli stessi reati che avvengono all’interno dei propri confini. Questi stati, inoltre, hanno forti interessi economici in Myanmar.

Il timore di un voto negativo sta creando una situazione di stallo. L’impressione è che diversi Stati utilizzino lo spettro incombente di un veto come scusa per non agire. E’ come se la Cina stesse esercitando il diritto di veto senza ufficialmente doverlo fare. Una situazione di win-win per tutti (tranne che per il Myanmar).

Oggi alcuni spingono per porre la Cina e la Russia di fronte alla scelta reale. e alle conseguenze delle proprie decisioni. Alcuni dicono che in realtà la probabilità di un veto cinese sia più bassa di quanto si pensi. D’altronde l’approccio di Pechino é sempre stato molto pragmatico, e avendo investimenti e progetti importanti nella regione, sicuramente non desidera una situazione di grave e prolungata instabilità. Odds al 50/50?

E l’Europa?

La comunità europea è ancora ferma alle fasi di condanna verbale. Stati Uniti, Canada e UK hanno annunciato le loro sanzioni economiche mirate, mentre l’Europa ancora non si è pronunciata. Ci sono diversi interessi economici che potrebbero spiegare il silenzio. Total (Francia) ad esempio è probabilmente tra le fonti di guadagno maggiori per il regime militare. Oppure Telenor (Norvegia) è uno dei maggiori operatori telefonici del Myanmar.

La speranza è che le Nazioni Unite capiscano l’urgenza del momento. Quello che sta accadendo in questi giorni in Myanmar, cambierà il Paese e tutta l’area del sudest asiatico per i prossimi decenni. E’ imperativo intervenire con tempestività.

Siamo di fronte ad un esercito terroristico, già colpevole di genocidio e altri reati di guerra, che commette un colpo di stato e diversi attentati terroristici nei confronti di civili innocenti. Le prove ci sono e sono numerose. Se l’ONU non riuscisse ad intervenire tempestivamente in un caso così evidente, non avrebbe nemmeno senso la sua esistenza.

Lo storico discorso di Kyaw Moe Tun alle Nazioni Unite, in cui richiede l’intervento immediato.

Quindi, cosa dovrebbe fare l’ONU?

Probabilmente di tutto un po’, con la coscienza che alcune misure hanno un valore più simbolico che reale. Ben vengano le sanzioni se mirate e accompagnate da progetti che si impegnino a migliorare la vita della popolazione locale. Sicuramente bisognerà evitare di dare legittimità al governo golpista, quindi bisognerà interloquire con il governo ombra CRPH.

Mentre la maggior parte dell’attenzione é rivolta alle sanzioni, secondo me si parla troppo poco di come trovare il modo di sostenere questo movimento di protesta con aiuti finanziari ed umanitari. La strada è lunga ed è importante dare alle persone la possibilità di continuare a protestare e determinare in autonomia il proprio destino.

Ad ogni modo il tempo delle valutazioni è finito ed è ora di agire. L’esercito ha mostrato chiaramente le sue carte. Il popolo birmano sta rischiando la vita ogni giorno ed è ora per la comunità internazionale di dimostrare che non è solo chiacchiere e distintivo.


2 Comments

Maria Teresa · March 8, 2021 at 6:02 pm

Sono d’accordissimo sul penultimo paragrafo ” che intravede una via con l’aiutare e sostenere con aiuti umanitari e finanziari questo Movimento di protesta. La strada è lunga ma è importante dare alle Persone la possibitità di continuare a protestare e determinare in Autonomia il proprio destino

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